«Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa» (Porta Fidei n. 10)
Nella nostra società emerge un problema più urgente e radicale di quello della giustizia, la crisi del senso del vivere insieme in un corpo sociale incapace di rappresentare a se stesso il legame che lo costituisce.
I cristiani dispongono di una criteriologia teologica per situarsi in questa situazione inedita. Essi sono chiamati a testimoniare nelle forme effettive dei rapporti socio-culturali una pratica della prossimità tra gli umani, che sia la traccia di una alleanza religiosa costitutiva di ogni società. Non possono accontentarsi di partecipare semplicemente all’istituzione permanente della democrazia, legittimando in tal modo la distanza tra coscienza individuale e società “complessa”.
È necessario in primo luogo superare la tentazione di “privatizzare” la fede (1.). La sfida richiede di cogliere la dimensione intrinsecamente religiosa dell’esperienza sociale (2.) affinché la testimonianza evangelica non sia superflua e retorica (3.), ma consona e adatta alle attese dei tempi, e quindi efficace (4.).
“ La dimensione pubblica del credere”
La minoranza cristiana è portata a ritirarsi nel suo spazio comunitario e tentata di disperare della sua capacità a pesare sulle grandi sfide della società, la quale si allontana progressivamente dall’umanesimo occidentale, sensibile alle sfide della libertà e della morale. Umanesimo che si dispiega nelle sue grandi strutture normative sul piano coniugale e familiare, culturale e sociale, politico e internazionale.
L’identità cristiana pare come disconnessa dalle realtà sociali e politiche, che non si sa come prendere in considerazione né per se stessi né davanti agli altri. Si parla della fede, che si vive e si celebra, più in termini intimi, relazionali e comunitari senza poter toccare ciò che avviene in profondità nella società. Si è imbarazzati a mettere insieme fede e società, a comprendere la dimensione sociale e politica della fede.
Nella cultura dominante la sottrazione della dimensione etico-culturale dalla sfera pubblica a motivo del predominio della razionalità funzionale, che esclude dalla sfera civile le questioni relative al senso del vivere e dell'agire sociale, porta a concepire l’idea di Dio come opzione legittima (o tollerata) di un sentimento esclusivamente privato. Una questione del diritto, infine, non più del sapere. In questo modo, naturalmente, la religione esce definitivamente dalla sfera del discorso di pubblico interesse e il tema del `divino' è interamente assorbito dentro la sfera della subcultura ecclesiastica e del sentimento soggettivo: sottratte all'orizzonte della domanda generale di senso e iscritte nella sfera del sentimento di parte, le virtualità umanistiche della religione non hanno spazio di concorso alla qualità del legame sociale. Lo stesso ritorno della religione si accompagna al deciso privilegio del nesso tra religione e coscienza soggettiva, e ulteriormente nasconde il nesso tra religione e società.
La comunità cristiana non si arrende all’idea di essere destinata a vivere in rapporto di estraneità e addirittura di ostilità nei confronti delle forme diffuse della società complessa e frammentata. È cosciente del rischio di legittimare il distacco del soggetto dalla vita effettiva, quando manchi di rendere sensibili le coscienze a quelle evidenze morali che trovano sempre meno spazio nel contesto civile. Rischio che si avverte nei pronunciamenti pubblici delle chiese, quando inclinano all'omologazione tra valori comuni e istanza religiosa: si lasciano quei valori alla loro obiettiva indeterminatezza e la giustizia del Regno viene obiettivamente fraintesa.
Del resto, la chiesa non può accettare che il proprio spazio sia soltanto quello privatissimo della coscienza individuale, che il luogo del trascendente e dell’esperienza religiosa tenda ad essere identificato con la realtà dell’interiorità1.
Quando di fatto così accade, viene ulteriormente approfondita quella distanza della verità di Dio dalle forme della vita quotidiana e sociale, che poi fa apparire quella verità marginale e praticamente irrilevante per riferimento alle cose di questo mondo come gli impegni nella vita sociale2.
Fare della religione un mondo culturale distinto e appartenente alla privacy significa trascurare il fatto che il trascendente è in relazione ad ogni sfera umana come principio che anima e fonda il suo significato e valore: si nega l’immanenza del trascendente. E la sfera sociale non è più aperta al di là di sè con simboli e immagini: si impoverisce il contenuto culturale, assolutizzando il suo significato e valore.
La sfida per la testimonianza del cristiano non è di chiudersi in una fortezza culturale alternativa di fronte ad una società considerata come persa nel relativismo dei valori, ma di contribuire fermamente e umilmente al dibattito pubblico, misurandosi su quelle forme della cultura, che sembrano sequestrare la coscienza «privata» dalle forme “pubbliche" del vivere e del comunicare. Appunto un tale sequestro induce rappresentazioni del bene dell'uomo riduttivamente sociali, che impegnano la decisione collettiva, e non invece la libertà del singolo. Finché persista di fatto un tale sequestro, la missione della chiesa dell'annuncio del vangelo di Dio, e quindi dell'invito alla conversione e alla fede apparirà per un lato impertinente, per altro lato ripetitiva e superflua in quanto ripetizione dei luoghi comuni quale dignità della persona, diritti dell'uomo, pace, libertà e giustizia, tutela del creato, e simili.
Il rimando dell’esperienza sociale alla verità della fede
La sfida riguarda l’impegno a ritrovare e insieme a rinnovare le tracce del Dio vivente in mezzo agli uomini “e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo”(Deus caritas est n.39). Perchè c’è un volto manifesto di Dio, oggi come sempre, nonostante tutte le secolarizzazioni della società moderna.
In questo contesto culturale le opzioni prevalenti sembrano solo due. O riaffermare la portata del messaggio cristiano nella prospettiva che può essere percepita come controculturale e senza pertinenza per il dibattito pubblico. Ci si arrende all'idea che la comunità cristiana sia destinata a vivere in rapporto di estraneità e addirittura di ostilità nei confronti delle forme diffuse della cultura secolare e postmoderna.
O assumere il pluralismo ingaggiandosi nella deliberazione collettiva capace di progettare un nodo consensuale, centrando il dibattito sulla giustificazione delle norme e abbandonando alle convinzioni personali i criteri del bene e del male, sostituiti da quelli del giusto e dello sbagliato. Quest’ultima prospettiva sembra rassegnarsi alla secolarizzazione del cristianesimo ridotto a fatto privato e, quindi, alla deteologizzazione della prassi sociale dei cristiani.
C’è una terza opzione, presente in particolare in ambito italiano, che sorge dal fascino di un cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, addirittura di un'identità nazionale, che assicura il ricompattarsi di una società sempre più frammentata: si tende a scivolare verso l'equazione "cristianesimo uguale Occidente". I cosiddetti valori cristiani non rischiano così di essere ridotti a strumenti per mantenere in buona salute la società, per darle unità di fronte ai pericoli esterni? E la Chiesa non viene ridotta a una potente lobby etico-sociale, una Chiesa massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti dalle ideologie?3
Tali opzioni, in un'epoca segnata dalla secolarità e da una complessità ingovernabile, espongono, anche se in modi diversi, la fede cristiana al rischio consistente di perdere la propria identità; e tuttavia corrispondono per altro a problemi obiettivi posti dalla nuova situazione civile, che la riflessione teologica deve chiarire.
È indispensabile sciogliere le questioni sottese, legate al rapporto tra fede religiosa e cultura, e prima ancora tra coscienza e società. Il rapporto sociale, e quindi la cultura ad esso sottesa, ha un'originaria densità religiosa, che mai può essere cancellata; la considerazione storica ampiamente attesta questo fatto. Occorre mostrare che la soluzione delle questioni attuali non è legata a una necessaria separazione fra la religione e la società, quanto piuttosto alla loro articolazione, e ciò in virtù delle esigenze della realtà socio-culturale stessa4.
È necessario mettere in luce la permanenza della questione teologica all’interno dell’esperienza sociale quotidiana, considerata nella sua interezza e nelle sue realtà caratterizzanti quali le istituzioni e le relative prestazioni di ruolo. Richiamandosi all’istanza originaria di una prossimità donata come una promessa, a cui rende testimonianza la cultura universale, la testimonianza sociale della fede evidenzia una possibile e univoca verità delle forme del rapporto umano raccomandate dalla tradizione culturale. E riferisce la verità incondizionata, a cui rimanda l’esperienza sociale, alla peculiare verità della fede. Indica così i modi attraverso i quali ricondurre, nella società secolare e pluralista, le obbligazioni sociali al metro ultimo costituito dal comandamento di Dio.
Permette in definitiva di prevedere una funzione configurante della fede per rapporto alla cultura, e dunque al sistema dei rapporti sociali, e anche, per rapporto alla coscienza del singolo minacciata dal difetto di evidenze morali del contesto civile, fatto che alimenta quella crisi del soggetto in molti modi denunciata dalla saggistica sui fatti di cultura 5.
Nell’impresa di rendere ragione della possibilità e della necessità che la fede cristiana ha di riprendere e conferire nuova forma ai contenuti dell'esperienza sociale, l’antropologia “personalistica” della Dottrina sociale della Chiesa costituisce un criterio affidabile per un approccio alla società in termini unitari e articolati, approccio in grado di cogliere nei rapporti sociali l’intrinseco rimando alle questioni fondamentali intorno al senso del destino umano e alla verità dell’uomo. Finchè non sia istituita in tale maniera determinata la questione sociale, l’evangelizzazione non potrà che apparire estrinseca e retorica.
La teologia sociale, articolando il rimando delle relazioni sociali e delle evidenze di bene in esse emergenti a quel “bene” ulteriore rispetto a tutte le norme sociali del giusto, mostra che ciò che è altro o differente (la fede nell’Evangelo del Regno di Dio) è alleato cioè unito (alle società umane): fa emergere in tal modo la circolarità dell’agape e della giustizia nelle relazioni sociali.
Occorre perciò leggere e giudicare instancabilmente i fatti sociali e politici, partire dagli eventi storici e sforzarsi di cogliere le motivazioni e le conseguenze antropologiche sottese. Utile sarà la creazione da parte della chiesa di osservatori dei fenomeni politici e sociali per incrementare la capacità di discernimento dei cosiddetti valori. Impostare il proprio ruolo nella società in questa forma, permetterà alla chiesa di trovare inaspettate convergenze collaborative. Soprattutto il confronto tra coscienza cristiana e coscienza civile non rimarrà soltanto retorico, e comunque improduttivo: esso non si produrrà soltanto nella forma di grandi enunciazioni di principio, ma scenderà sul campo della concreta esperienza quotidiana dell'uomo, quella esperienza morale che le forme egemoni della cultura pubblica contemporanea sembrano condannare appunto alla clandestinità della vita soltanto «privata»6. Le convinzioni radicate nella Bibbia e nella tradizione cristiana devono essere portate in una mutua correlazione critica con le comprensioni basate sull’esperienza umana comune e sulla riflessione ragionata di questa esperienza. La testimonianza sociale della fede partecipa così ad alimentare un consenso dall’interno dell’esperienza sociale, mirando alla comune sensibilità umana.
Per un tale compito la testimonianza del credente procede non in modo deduttivo, ma dialettico e analogico: scopre correlazioni e similarità tra differenti sfere di pensiero e azione. È impresa persuasiva più che deduttiva. Per essere persuasiva deve essere radicata nell’esperienza, nella storia e nella cultura. È una forma di prudenza e di sapienza pratica, che fa scoprire delle correlazioni tra la visione del Regno di Dio e la forma della società.
La testimonianza sociale della fede come testimonianza della prossimità e della cura di Dio agli uomini si determina, assumendo il limite della prassi sociale ma correlandolo con l'orizzonte antropologico e teologico: la prospettiva escatologica non annulla ma valorizza il riferimento che l'agire del singolo comporta ad un ethos comune. La prassi sociale viene ricompresa e aperta ad un “bene” trascendente ogni preciso obiettivo storico e materiale, un bene che assume figura concreta in una comunità di libertà come luogo di agape. Tale testimonianza sociale della fede deve configurarsi storicamente nei vari livelli dell’azione sociale e secondo modalità appropriate agli ordinamenti concretamente vigenti all’interno della società.
La testimonianza sociale della fede pone l’aspetto sistemico organizzativo della società, senza ipostatizzarlo, in un orizzonte che dà spazio alle questioni «ultime» e permette di affermare insieme la lealtà alle organizzazioni e la libertà di spirito nei loro confronti: chiama alla cura per il destino e la libertà dell’altro in gioco nelle istituzioni e nelle strutture. Si tratta di un approccio che si distingue da quello dell’”etica applicata”: questa appare più attenta all’efficacia delle decisioni che alle discussioni, giudicate superflue, sul funzionamento della normatività e sui fondamenti antropologici dell’azione istituzionale.
Un approccio, quello della testimonianza sociale della fede, che raggiunge le persone nei loro ruoli sociali dove sono in grado di investire la loro libertà per edificare forme di cittadinanza degne di custodirla. Si supera in tal modo la definizione esclusivamente burocratica dei ruoli di modo che questi, che costituiscono le istituzioni, non siano semplici mezzi per l’autorealizzazione individuale ma il luogo del possibile reciproco riconoscimento: così essi riflettono in qualche modo la carità, quando non ci si rassegna all’indifferenza o ad una giustizia garantita dal mero equilibrio delle forze.
Occorre predisporre le condizioni propizie perché la pastorale ecclesiale acquisisca una competenza esperta a proposito della qualità delle relazioni sociali, rivolta all'obiettivo di intendere la verità della fede celata nelle forme secolari dell’organizzazione sociale. A questo fine la teologia sociale deve predisporre le categorie concettuali mediante le quali illuminare la quasi disperante complessità dell'esperienza sociale nel nostro tempo al fine del riconoscimento delle radici antropologiche e culturali della fede. L’effettivo discernimento cristiano della società realizza insieme i due compiti: quello di rendere storicamente competente l’annuncio del vangelo, e quello di abilitare la chiesa tutta all’esercizio di quella stessa profezia civile della quale la società ha bisogno sempre, ma oggi per ragioni particolari, profezia che è compito specifico della comunità cristiana7.
Attraverso un’ermeneutica critica, che porti alla luce lo spazio aperto alla libertà del singolo nelle diverse forme del vivere sociale, la testimonianza sociale della fede mostra come ogni figura di rapporto umano realizzi, sia pure con modalità assai diverse, la forma generale della prossimità. “Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica” (Deus caritas est n.18).
Si evita così il rischio di legittimare il distacco del soggetto dalla vita sociale effettiva e si contribuisce a dare forma ad una comunità di libertà, connotata dall'attitudine del dono e dalla tenacia della prossimità. Evita cioè che le relazioni di prossimità o interpersonali diventino solo un mondo chiuso negli affetti privati e le relazioni sociali o mediate dalle istituzioni si trasformino in uno spazio unicamente funzionale e tecnico, dove il punto di vista della coscienza individuale appare sistematicamente rimosso.
Si esige che la predicazione cristiana riconduca il singolo ai luoghi veri nei quali si decide della sua libertà, luoghi nascosti ai suoi occhi dagli effetti omologanti della cultura pubblica. Il rapporto pastorale procura consistenti opportunità di consuetudine con la vita «personale» dei singoli e con i loro problemi: il contributo della chiesa al bene comune riguarda l'agire quale determinazione di sé da parte del soggetto, e non solo di un'etica riduttivamente intesa come determinazione della norma imposta all'agire in forza delle ragioni del rapporto sociale.
L’evangelizzazione del sociale
Se c’è un accento che deve essere messo nella testimonianza sociale della fede per rispondere alle necessità dell’epoca, esso è quello relativo al carattere promettente della società umana, non certo quello dei suoi profili tragici. La testimonianza del credente manifesta la sua fiducia che questo mondo porti in sè le primizie della Buona Novella e che le pratiche cristiane possano essere espresse in modo che siano intelleggibili ad ogni persona ragionevole, saldando fede e ragione nell’annunzio della specificità del messaggio cristiano nel mondo8. La chiesa ha da essere luogo di comunicazione abituale tra i cristiani a proposito della loro vita quotidiana e delle mille difficoltà che propone la realizzazione effettiva di un rapporto di prossimità e di servizio reciproco, servizio che sigilla la verità del vincolo fraterno anche nelle istituzioni. Proprio perché il vivere sociale non è soltanto una necessità e una legge: è invece una possibilità grata che si dischiude sorprendentemente nella vita accolta come una promessa. Dare parola a questa esperienza vuol dire dare nome al volto promettente della vita. Vuol dire predisporre le condizioni perchè possa essere dato un nome a Dio stesso, a procedere dai segni evidenti della sua presenza e della sua opera, segni che soli rendono possibile e urgente la passione dell’uomo per la causa della vita propria e di propri fratelli (Deus caritas est nn.20-29, 31). Tale responsabilità, dimessa dal punto di vista della visibilità esteriore, ma intensa e radicale dal punto di vista del legame spirituale e pratico, deve attrarre il ministero pastorale all’evangelizzazione e alla cura della vita cristiana nella comune condizione civile.
Nella missione dell’evangelizzazione del sociale la testimonianza del credente consiste appunto nella fedeltà al patto che ci lega da sempre all’altro prossimo. Non è la mia iniziativa che crea la prossimità: essa solo la riconosce come un dato di fatto che precede l’iniziativa stessa. Per intendere la qualità della testimonianza sociale della fede è indispensabile anzitutto riconoscere la qualità di quel patto come dono promettente e appello alla libertà per una risposta grata9.
Questa prospettiva cristiana si oppone al punto di vista della cultura pubblica dominante del nostro tempo, la quale riduce la figura del rapporto libero a quella del contratto, del vincolo dunque realizzato ad opera della libertà personale.
La testimonianza sociale della fede è primariamente diretta alla società civile, dove contribuisce a stimolare la critica nei confronti delle attese date per scontate, e a sostenere l’immaginazione creativa nel generare le risorse normative e i presupposti valoriali da cui dipendono le istituzioni democratiche. Apre un diverso orizzonte ermeneutico, potente abbastanza per spezzare lo stretto orizzonte del tempo in cui noi viviamo, ed infrangere le interpretazioni ideologiche o tendenziose (disconnessione tra coscienza personale e coscienza civile, muri mentali e la biforcazione del mondo in termini di scontro di civiltà).
La testimonianza sociale della fede si muove nella consapevolezza che verità evangelica, diretta alla libertà individuale, e prassi sociale, normata dal bene comune, non costituiscono due termini suscettibili di immediato confronto. La giustizia del Regno è più grande e pur sempre distinta da ogni giustizia sociale, che è il criterio di legittimazione delle istituzioni nella società. Questa consapevolezza credente ci spinge innanzitutto ad approfondire come la intenzionalità cristiana possa plasmare la prassi sociale, che non si identifica con la prassi personale.
Tra fede e prassi sociale occorre un livello intermedio che potremmo chiamare “rappresentazione storico-sociale” o figura di società, che è legata da un lato all’ideale e dall’altro alle possibilità concrete. Il progetto storico-concreto è necessario perché non si rimanga nella genericità dei valori (giustizia, verità.. piegati a diverse funzioni) o si cada nella prassi arbitraria e pragmatica10. Si può allora parlare di “ideologia” nel rapporto fede-società, a condizione che rimanga chiara la trascendenza della fede e della carità, che vi sia coerenza nei mezzi, fini e aspirazioni, e che si riconosca il carattere contingente e storico, e perciò anche il pluralismo, dei progetti sociali e ideologici. Per questo nella Sollicitudo rei Socialis, al n. 41, si nega che la Dottrina sociale della Chiesa possa essere considerata una ideologia.
Il progetto storico-concreto, interpretando e determinando, in riferimento alla situazione storica, le esigenze obiettive del bene comune, fornisce già una linea programmatica. I suoi contenuti sono meno generali di quelli espressi nella nozione di bene comune, ma non ancora tali da essere immediatamente operativi.
Il credente, quindi, da un lato, nella sua testimonianza di fede, si trova nella necessità morale di dare efficacia storica alla dimensione utopica della fede esprimendola in una ideologia, dall'altro non può semplicemente dedurre dalla sua fede qualcosa di paragonabile ad una ideologia politica, proprio perchè la fede non fornisce quella conoscenza della situazione storica che risulta, invece, determinante. Incombe, in questo senso, sulla sua responsabilità, il dovere di elaborare un progetto di società fedele sia ai valori etico-ideali, connessi alla fede, sia alle obiettive esigenze della situazione storica.
D'altra parte, se la fede non si determina univocamente in una ideologia, neppure è compatibile con qualsiasi opzione ideologica, indifferentemente11.
Le ragioni che motivano l'indeducibilità dalla conoscenza di fede di particolari modelli di società, e legittimano un relativo pluralismo, valgono a maggior ragione per quel livello della prassi socio-politica che è quello dei programmi o delle proposte e scelte particolari, di portata più o meno vasta, ma immediatamente operative.
Anche a questo livello la fede, da un lato, esige di esprimere la sua specifica rilevanza, dall'altro non offre immediatamente delle soluzioni, occorrendo, per questo, successive mediazioni conoscitive non deducibili da essa, e, in questo senso, « autonome »: cioè aventi propri (ed obiettivi) criteri di validità.
In concreto il programma deve essere giudicato in base alla sua idoneità ed efficacia a tradurre in atto una “ideologia” che, a sua volta, sia riconosciuta come capace di mediare — senza comprometterne nessuna — le imprescindibili esigenze etico-sociali della fede.
Inoltre nella prospettiva dell’azione dobbiamo distinguere tre livelli qualitativamente diversi dell’agire umano: l’individuo (cittadino, consumatore, produttore...), l’organizzazione (impresa, sindacato, partiti, associazioni dei consumatori...) e il sistema (nazionale, internazionale, globale...). Il punto cruciale è che essi non devono essere ridotti l’uno all’altro. L’aspetto organizzativo non va perso a motivo dell’enfasi sul livello sistemico. L’etica del mercato, per es., ha da fare con l’azione umana guidata da valori etici e norme. Gli aspetti etici devono essere tenuti in conto e specificati dai distinti livelli di agire e dai loro distinti tipi di valori e di norme12.
L’influsso della fede, che anima la libertà dei soggetti e le loro decisioni concrete non è lo stesso nei diversi livelli del giudizio pratico e dell’azione, e si diversifica a seconda dei gradi di concretezza e contingenza: le norme secondarie o criteri dettagliati ( è, per es., il pieno impiego compatibile con il 4 o il 7 % di disoccupazione in questo paese e in queste circostanze?) sono indicatori più che principi fissati una volta per tutte.
La testimonianza sociale della fede plasma l’azione sociale con la luce e la forza dell’Evangelo, e fa sì che riceva un riferimento interiore a Dio13. Attraverso questo interiore riferimento a Dio l’azione possiede una qualità sacramentale e affonda le sue radici nella partecipazione alla vita stessa di Dio e nell’impegno a ricambiare con gratitudine14.
L’azione sociale diventa solidale con la visione escatologica della speranza, e il cammino della sua realizzazione, che è la giustizia, rimane connotato dall’amore che vuole che l’altro sia e sia libero e riconosciuto anche nelle istituzioni sociali (CDSC nn.207-208). Tale tipo di azione sociale genera conflitto, ma soprattutto offerta di senso, di ragioni riconoscibili autenticamente e diffusamente come buone così che la vita sociale possa essere colta anch'essa come occasione di dedicazione di sé e di crescita comune. E la società stessa possa divenire non solo un tutto organizzato in cui rimanere insieme per mere ragioni di necessità o utilità, ma luogo di vera, comune e promettente umanizzazione, di effettivo inveramento della libertà. In questa logica, libertà umana significa essere ugualmente interessato al bene dell'altro, non perché ciò è più vantaggioso per me, ma precisamente perché è vantaggioso per l'altro, un altro riconosciuto come prossimo. È questa la base comune del vivere sociale, a cui l’impegno del cristiano dà il suo contributo originale fondato nella verità della Rivelazione divina15.
L’azione sociale animata dalla fede richiede la presa in considerazione dei diversi punti di vista delle scienze sociali e sviluppa sempre un “giudizio” sulle strutture e sulle istituzioni del vivere civile, denuncia la loro distanza dall’ideale della fraternità e sollecita il cammino in questo senso. In questa prospettiva la giustizia non è più riducibile al rapporto razionale con gli altri, e con la società, nella figura di un calcolo vantaggioso di individui isolati, che assicurano le rivendicazioni della loro individualità16. Certo, la persona non è tolta dal gioco delle relazioni sociali e della loro logica di efficienza: si può e si deve misurare e valutare i costi della salute di una persona, ma si tratta di un punto di vista irriducibile al punto di vista primario, dove la persona è al di sopra di ogni prezzo17.
La fede testimoniata nella società mediante la carità18 deve fare i conti con una obiettività e diversità-conflittualità, che immediatamente resistono o sembrano antagoniste all’atteggiamento di carità. Specialmente entro la complessità odierna essa è necessaria per condurre a scoprire le forme dell'agire sociale come forme promettenti, cariche di senso: pone in grado di intravedere compimenti non soltanto possibili ma plausibili ed apprezzabili, degni di piena dedicazione di sé e di molti, congiuntamente in una ricca articolazione delle modalità di donazione e di scambio19.
“La responsabilità sociale di ciò che si crede”
Se la testimonianza sociale della fede chiama prima di tutto a testimoniare la cura del Padre verso ogni uomo attraverso gesti e condizioni che la rendano presente, il primo criterio sarà quello della differenza fra la carità di Dio e i gesti che la esprimono, e perciò stesso insieme della reciproca coimplicanza.
Allora, nella costruzione della città il cristiano agisce come evangelizzatore in quanto fratello in umanità degli uomini, altrimenti la sua proposta rischierebbe, per voler essere più pienamente 'finale', di separarlo dalla famiglia umana nella costruzione di quel Regno che può essere accolto da tutti; o, peggio ancora, di rendere la sua proposta, che è oggettivamente salvifica, odiosa e inefficace.
Perciò egli, vedendo il valore liberante per l'uomo che il messaggio cristiano possiede, deve essere in grado di farlo cogliere in quanto consono e adatto alle attese dell'uomo e dei tempi. A costo magari di graduarne la presentazione per venire incontro alle capacità recettive dell'uomo storico, imitando così, del resto, l'opera pedagogica di Dio. Ciò vorrà dire che, per es. nella politica, l’impegno del credente testimonierà i valori religiosi declinandoli come risposte antropologiche a bisogni dell'uomo (mediazione etica) e secondo la regola della maturazione del consenso, e quindi della paziente azione pedagogica culturale, e non unicamente della immediata imposizione di essi con le leggi. Questo significa agire - secondo una vecchia formula - da cristiano e non in quanto cristiano. Il cristiano in politica deve quindi sempre fare i conti con questa unità dei distinti: cioè con il riferimento alla verità assoluta che lo trascende e con l'accettazione della parzialità storica, in cui quella medesima verità s'incarna faticosamente in uomini dai percorsi personali e ideologici diversi, ma in una stessa città, dove deve essere resa testimonianza efficace all'unità 'finale' attraverso la realizzazione d'una concordia parziale. E questa si ottiene, ovviamente, non con la pretesa di instaurare da subito la condizione 'finale', che non tutti intravedono e che nessuno, nemmeno il cristiano, intravede nella sua interezza; ma con un progressivo accorpamento attorno a valori più partecipati, giudicati atti a promuovere tutto l'uomo e tutti gli uomini.
Proprio la compresenza di differenza e reciproca implicazione tra la verità assoluta dell’istanza escatologica e radicale dell’amore e il pluralismo di progetti storici concreti richiede che nel giudizio etico-sociale si sia attenti agli elementi e ai passaggi tipici dell’azione sociale, in particolare dell’agire politico, sicché il giudizio potrà essere formulato mediante queste categorie:
I) L’individuazione degli obiettivi e delle priorità,
II) la configurazione dei modelli come traduzione concreta dei fini,
III) la scelta dei mezzi o disponibilità, atti a realizzare gli obiettivi.
IV) Occorre anche tentare delle “previsioni” delle possibili o reali conseguenze delle scelte.
A differenza delle scelte e dei giudizi individuali, nel campo sociale o pubblico entra la variabile fondamentale che è la decisione degli altri, che interferisce con la mia. Il cristiano nel testimoniare la fede mirerà al bene possibile, bene che implica che vi sia una comprensione della realtà secondo la sua espressione empirico-fattuale, ma anche secondo il suo spirito, le sue virtualità, le sue istanze prefigurate in vicende e “progetti”.
Il bene possibile attinge la sua pregnanza dal costituirsi come testimonianza storica e momento di un cammino verso il bene nella sua pienezza, bene che viene fatto valere nelle sue anticipazioni parziali: non come qualcosa di sempre già fissato, bensì come qualcosa che si profila come possibile. L’anticipazione parziale riassume in sé i caratteri della possibilità, della potenzialità e della potenza, tutti legati fra loro dal fatto di essere positivamente considerati come una virtus. E mette in relazione il bene infinito e pieno con `modi', `tempi' e `persone' caratterizzate della finitudine e parzialità, attraverso un atto interpretativo che cerca di coniugare il momento dell'universalità con quello della particolarità20.
Si tratta di valutare la misura più o meno grande di approssimazione al bene che è immanente nelle molteplici possibilità di azione concreta, interpretandone la consistenza intrinseca.
Secondo M. Ivaldo la questione che si pone a chi giudica che per la via della comune ragionevolezza esistano “valori non negoziabili” è allora quella della costruzione di un rapporto dialettico positivo fra i «valori non negoziabili» stessi e la negoziazione politica, una sintesi, mai perfetta, fra «convinzione» e «responsabilità»21. Qui si apre lo spazio irriducíbile di quella che si chiama «medíazione» (non si identifica con il compromesso), mediazione che incarna i principi o i valori attraverso l'azione. In caso contrario ci si condanna o al tradimento del valori oppure all'inefficacia politica22.
L’opera di mediazione deve muovere dal “firmamente teologico” della fede e della saggezza cristiana, e deve sforzarsi di rimanervi fedele in concreto, ossia deve penetrare in esse e lasciarsene ispirare. Tuttavia la mediazione assume i contesti in rapporto ai quali è chiamata ad esercitarsi, tenendo conto dei valori indisponibili, degli interessi legittimi in gioco e del carattere plurale e differenziato delle nostre società, senza perdere di vista anche le conseguenze prevedibili dei mezzi adottati. Questa pratica argomentativa e razionale è necessaria per affrontare con un approccio unitario, sia le attuali questioni antropologiche-politiche della difesa della vita e della tutela e promozione della famiglia sia le grandi questioni sociali della lotta alla povertà c della costruzione della convivenza23.
Ovviamente la categoria della “possibilità” può prestarsi al rischio della perdita di identità, in particolare in una società pluralistica che richiede cooperazione e tolleranza24.
Ma la linea tra l’ingiustificato tradimento degli ideali e la mediazione ragionevole e realistica è sempre difficile da tracciare e richiede discernimento sapienziale e non solo regole astratte. Richiede la mobilitazione di risorse di vari tipi per la critica sociale.
In ogni caso, non ci dovrà mai essere una 'resa' senza una 'resistenza', almeno quella resistenza minimale dell'esibire le ragioni delle proprie posizioni; nè una 'resistenza' senza una 'resa', almeno quella resa minimale del comprendere le ragioni dell'altro.
Con questa strategia di impegno socio-politico il credente riesce a dare testimonianza di fede e a far capire agli altri la portata dei valori comuni, in cui tutti possano riconoscere spazi di libertà e di realizzazione validi per sé.
All’esigenza massimalista la fede oppone la pazienza e il rigore del compito concreto e spesso poco glorioso che si impone, se non si vuole deludere l’attesa legittima del prossimo. Non vi è qui come un modo di vivere la risurrezione nella forma di quel possibile latente in ogni impasse, e nella stessa morte?. Questo valorizzare le buone possibilità nelle decisioni concrete e apparentemente modeste è efficace e razionale25.
L’incompiutezza storica non è tragica, ma illuminata dalla speranza: guadagna la vita integra chi fa dono della sua vita misurata e logorata dal tempo. L’incompiutezza è vissuta come cammino; l’uomo è viator. L’impegno civile e politico del cristiano è cifra del carattere sociale e fraterno del cammino storico dell’uomo26.
In conclusione, il cammino storico in cui la volontà di giustizia sociale viene realizzata dall’opera dell'uomo, è volontà “obbediente”, non volontà eteronoma ma volontà che è riconoscente per il dono che l’ha preceduta e che accetta di affidarsi all’Altro quanto alla definitiva salvezza di ciò che è vissuto come limitato. Là dove il limite è integrato nella comprensione della finitezza (cioè della sua portata ontologica e metafisica) il possibile assume un senso, cioè un significato e una direzione determinata.
Il credente spera che Dio abolisca definitivamente l’ingiustizia e desidera rispondere alla volontà ultima di Dio attraverso il pentimento, l’obbedienza e la testimonianza concreta nelle scelte condizionate, ma tese al maggior bene possibile27.
L'effettiva possibilità di una esistenza in comune, in fratellanza, sotto il segno della cooperazione e non del conflitto, appare istituita dall'amore stesso di Dio nei confronti degli uomini come suoi figli, e per questo non distruttibile neppure dal peccato degli umani: la logica della carità e del dono, sta precisamente qui, in questo gesto fondatore e incondizionato. Il fondamento religioso dell’etica sociale trova la suprema formulazione nel comandamento dell’amore del prossimo28. La dedizione di sé, una dedizione autorizzata dalla speranza nell’amore di Dio, è una dedizione che intende rendere testimonianza a quell’amore originario.
BIBLIOGRAFIA
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D. GUENZI (a cura di), Carità e giustizia per il bene comune, Edizioni CVS, Roma 2011
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P.VALADIER, L’anarchie des valeurs, Albin Michel , Paris 1997
GIANNI MANZONE
La storia di Dio ci tocca attraverso la forma di un’altra persona. La libertà donata da quella storia viene a me solo nella presenza dell’altro. Io sono un soggetto in proporzione che ho la capacità di essere chiamato per opera di un altro. È attraverso l’altro che impariamo la storia che dà alla mia vita un fine e una direzione.
Pur rimanendo sensata e necessaria la distinzione, appare indispensabile e urgente interrogarsi sulle relazioni e le articolazioni necessarie tra fede religiosa e società. Relazioni che rimangono necessarie dal punto di vista stesso delle istituzioni civili ed hanno un’originalità cristiana, messa ulteriormente in luce dalla presenza in Europa dall’Islam.
Per istituire in questi termini il rapporto tra la fede e la dimensione sociale dell'esperienza umana, è necessario restaurare, a tutti i livelli dell'esperienza individuale e collettiva, lo spazio di interrogazione, nel quale la parola della fede diviene comprensibile e pertinente.
A.BERTULETTI, “L’Europa e il Cristianesimo, fede e modernità “ in AA.VV., Il caso Europa, Glossa, Milano 1991, p.54-78
R.MANCINI, Esistenza e gratuità, Cittadella, Assisi, 1996, p.129 ssg. _ anche D. Guenzi (a cura di), Carità e giustizia per il bene comune, Edizioni CVS 2011
Il Concilio Vaticano II approfondì la comprensione della missione sociale della chiesa in riferimento al problema della relazione chiesa stato e alla sua soluzione in favore della libertà religiosa (DH). Oggi la relazione della chiesa ad una società pluralistica continua ad essere bisognosa di chiarificazione.
Negli anni ‘50 i difensori di una posizione politica della chiesa si appellarono come motivazione al fatto che la chiesa possiede la vera visione della natura e del destino dell’umanità e del cosmo, visione che dovrebbe essere la base di tutta la vita sociale. Questo approccio a livello teologico è conosciuto come integralismo: sottolinea l’unità della religione, della vita quotidiana e della politica. Manifesta un potente istinto a vedere tutte le cose umane come mediazioni potenziali della presenza divina.
Si tratta di un istinto buono ma può divenire perverso quando viene interpretato per significare che tutta la conoscenza può essere ridotta alla teologia o che tutte le istituzioni sociali dovrebbero essere estensione della chiesa. Può essere presente a sinistra e a destra. Il fatto che la missione della chiesa sia più immediatamente fondata sulla prospettiva biblica e teologica può intensificare la tentazione di muovere in questa direzione.
La stessa testimonianza della carità e la scelta privilegiata dei poveri ha per la coscienza ecclesiale al suo livello supremo il significato obiettivo di una testimonianza di un rimando alla fede-speranza escatologica.
Per la categoria di ideale storico concreto, cfr. J.MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Torino 1962, p.167
Ci sono dei limiti che circoscrivono il legittimo pluralismo entro determinati confini: in linea di principio sono i contenuti etici, antropologici e teologici costitutivi della fede cristiana precedentemente ad ogni ulteriore mediazione (sostanzialmente corrispondono — per quello che qui interessa — a ciò che è detto il contenuto utopico della fede). Cfr P. CARLOTTI (a cura di), Teologia morale e scienze empiriche, LAS, Roma 2012.
Lo schema euristico dei livelli dell’azione (individuale, organizzativo, sistemico) non dà risposte alle questioni, ma dice dove noi dobbiano cercare le risposte.
G.PIANA, “Teologia del sociale ed etica” in Archivio Teologico Torinese 1(2002)37-47; G.MANZONE, Una comunità di libertà. Introduzione alla teologia sociale, Ed. Messaggero, Padova 2008.
Questa base comune consente allo stato di promuovere ulteriori fattori di stabilità: “Questa capacità è però effettiva solo a condizione che i cittadini in quanto seguaci di una determinata religione la pratichino effettivamente acquisendola come loro codice di vita” (E.W.BOCKENFORDE, “Lo stato secolarizzato e i suoi valori” in Il Regno doc 18(2007)642).
M. RHONHEIMER:“Perchè una filosfofia politica?Elementi storici per una risposta”in Acta Philosophica 1(1992)231-263.
La carità “sociale”, pur radicandosi e provenendo da un orizzonte universale e incondizionato, ha una sua specificità, che è data dalla specificità del sociale. In altre parole, le forme e le modalità del suo esercizio non sono riducibili a quelle dei rapporti interpersonali. E’ la medesima carità, ma in forme diverse. Un esempio può essere quello delle professioni considerate nella loro anima profonda, cfr. G.MANZONE, Il volto umano delle professioni. Sfide e prospettive dell’etica professionale, Carocci, Roma 2011.
In questo senso parliamo appunto di reciprocità limitata, di analogie relazionali e di differenziazioni legittime: esse infatti concorrono all'armonia etica dell'insieme sociale e allo sviluppo differenziato che arricchisce la qualità dei legami. L'ordine delle relazioni implica giustificate gerarchie delle relazioni. Il contraccambio del dono per es. implica giustificate proporzioni, proprio in ordine alla salvaguardia della eticità delle relazioni (respingere un dono sproporzionato, rifiutare una regalìa ricattatoria, sono limitazioni della donazione che vanno considerate eticamente doverose).
Cfr. F.TOTARO, “Universalismo e relativismo” in F.BOTTURI-F.TOTARO (a cura di), Universalismo ed etica pubblica, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp.55-80
Da qui la necessità che si alimenti, invece, la tensione tra valori e disvalori. La morale cristiana ha allora anche una funzione “parenetica” nel senso di stimolare un costante riferimento al valore.
Nessuno pensa che si vincerà il terrorismo con qualche azione strepitosa, ma si possono segnare delle nette vittorie con la lotta paziente, metodica e microscopica: quella che rivela i movimenti clandestini, ricostruisce le fila, smonta le reti, si mobilita costantemente. Le dimissioni per es. di un alto ufficiale di fronte alla corruzione: non eliminano il male ma scuotono le coscienze e infondono fiducia in cose diverse dalla viltà o dalla fatalità.
Si tratta di un’etica della finitudine, capace della pazienza richiesta dal compito di trasformare strutturalmente situazioni e pratiche. E la capacità di sopportare questo disagio è il segno di una posizione che è vero coraggio etico.
Certo come segnala Von Balthassar “le strutture profane sono le strutture della finitudine e della vanità (Rom 8,20)” ma “questo non equivale alla rassegnazione alla presenza del mondo tale quale è. Al cristiano incombe il compito di penetrare le strutture finite, per quanto può, di uno spirito inifinito d’amore e di riconciliazione, sapendo bene che esse opporranno sempre, nel loro insieme, resistenza a questa penetrazione”(L’engagement di Dieu, Culture et Veritè 1995 p.116-7). È un realismo sano che mobilita.